Niccolò Machiavelli (1469-1527)
Nasce a Firenze
(San Casciano in Val di Pesa) da una famiglia di nobili origini (i Machiavelli
erano stati signori di Montespertoli trasferitisi a Firenze,
sottomettendosi alla sua legge e dividendone le glorie), famiglia guelfa che
dette alla città ben tredici Gonfalonieri di giustizia e una cinquantina di
Priori; la stirpe della madre originaria di Fucecchio era altresí di antica
nobiltà e la famiglia dette a Firenze un Gonfaloniere
e cinque priori.
Interessato alla politica già nella giovinezza,
approfittò della costituzione della Repubblica di Firenze per cercare di
partecipare alla vita politica della sua città. Nel 1498,
dopo la cacciata dei Medici da Firenze e la fine dell’avventura politica e
religiosa del frate Girolamo Savonarola, Machiavelli fu eletto Segretario della Seconda cancelleria della
Repubblica fiorentina, assumendo importanti funzioni, tra cui quella di
viaggiare all’estero per informare la città sui principali provvedimenti presi
dai più importanti governi europei. Il contatto diretto con le varie forme di governo,
assieme alla sua passione per i classici antichi e per la “teoria politica” in
generale, contribuirono alla formazione del suo pensiero.
Nel 1513,
con il ritorno dei Medici a Firenze in seguito ad accordi presi con il re di
Spagna, Machiavelli, troppo compromesso con il governo precedente, venne
incarcerato, torturato e infine confinato nella sua villa in un paesino vicino
a Firenze, Sant’Andrea in Percussina. Qui, tra le giornate rese lunghe dall’ozio
forzato, comincia a scrivere il suo libro più famoso, Il Principe.
Nel 1516
inizia a frequentare le riunioni nei giardini del Palazzo Rucellai (gli Orti Oricellari) dove discuteva di
argomenti letterari, filosofici e politici. In questi anni compone opere come La Mandragola
e la novella Belfagor arcidiavolo. Nel frattempo il
rapporto di Machiavelli con i Medici si rasserena, almeno in parte: il
cardinale Giulio de’ Medici, futuro papa Clemente
VII, gli commissiona la stesura delle Istorie fiorentine.
Nel 1521
conosce personalmente a Carpi Francesco Guicciardini con cui stringe un’amicizia
testimoniata da molte lettere. Dopo pochi anni torna a ricoprire alcuni
incarichi per i Medici, anche se di poca importanza. Quando, il 6 maggio 1527,
avviene il sacco di Roma e la caduta del regime mediceo, Machiavelli decide di
tornare a Firenze. Muore improvvisamente il 21 giugno 1527.
Il
Principe. Un’indagine
sistematica su una forma di governo e sui meccanismi del suo funzionamento. La lettera a Francesco Vettori (10
dicembre 1513) > Titolo: De
principatibus.
Problema della datazione. Principali ipotesi: 1513, seconda metà: ipotesi tradizionale
(Chabod); 1513-14 (Sasso); 1513, con aggiunte e modificazioni di entità
significativa fino all’inverno ‘18-’19, quando comincia a circolare in una
cerchia ristretta (Martelli): ciò sarebbe provato dall’Ehortatio finale (capitolo XXVI), possibile solo dopo la conquista
medicea del Ducato di Urbino, quando si prospettava per Firenze un assetto
monarchico (1518). In seguito, M. non si sarebbe preoccupato del labor limae, lasciando piccole
incongruenze, che ne fanno un «libro in divenire», secondo un modo comune di
lavorare del M. (Marchand).
Quest’ultima
visione, ripresa anche dal Bausi, probabilmente pecca di esagerazione: Il Principe è un libro dove solo l’eccessivo
rigore dei filologi trova incongruenze, a loro dire significative; e invece, si
tratta di un testo ben calcolato e fortemente coeso.
Partizione della materia:
Capitoli I-XI: tipologia del principato; strategie da seguire
per garantirsi un governo sicuro in situazioni differenti. Il suo interesse, menzionati
rapidamente i principati ereditari, si centra su quelli «nuovi» (oggetto “ideale” di analisi razionale). III-IV > province
annesse a uno Stato già formato.
VI-IX > principati interamente nuovi («nuovi
tutti») costituiti da personaggi eccezionali. VI: Coloro che pervengono al
principato con le armi proprie (Teseo, Ciro, Romolo) > virtù fortuna e occasione; uso della forza: i «profeti armati» sono
quelli che vincono; i “profeti disarmati” sono destinati alla sconfitta (come
Girolamo Savonarola). VII: coloro che giungono al potere grazie alla fortuna: il Valentino, che alla fortuna aggiunge la virtus. La politica ha leggi che possono garantire il successo se
osservate; ma in caso contrario porta alla rovina. VIII: coloro che hanno
acquistato il principato attraverso scelleratezze (violenza estrema): ess.:
Agatocle, Liverotto da Fermo > li condanna, non in assoluto ma perché non
hanno saputo usare la forza con misura e senso dell’opportunità. IX: quanti
pervengono al principato con l’aiuto dei cittadini: la politica di alleanze (“principato
civile”).
X-XI > lotta contro il nemico esterno;
principato ecclesiastico (molto particolare perché di fondazione “divina” e non
umana).
Capitoli XII-XXIV. Vita interna dello Stato e caratteristicche
personal6i del principe. XII-XIV:
problema della milizia.
XV > passaggio alle qualità personali del princeps (attacco ai trattatisti
precedenti) > la questione del realismo
machiavelliano.
XVI-XIX > liberalitas/parsimonia;
amor/timor: se nella gestione dello Stato sia più efficace suscitare amore o incutere timore (XVII); “audacia del
leone, astuzia della volpe” (XVIII); risoluto e deciso (contro il
“temporeggiare” fiorentino) (XIX).
XX-XXIII > situazioni specifiche: le fortezze, la
stima dei sudditi, i consiglieri (“ministri”), gli adulatori.
XXIV > cause per cui i governanti d’Italia hanno
perduto i loro Stati.
Capitoli XXV-XXVI. XXV: la Fortuna , nemica della virtus: volontarismo, audacia impetuosa («la Fortuna è donna», celebre
metafora). XXVI: Exhortatio a
liberare l’Italia.
Un’altra partizione (M. Martelli): I-XIV:
tipi di principato, problemi delle milizie, compiti militari del principe; XV-XXVI: comportamento del principe
> in tal modo si spiegano le due
forme del titolo: De principatibus
(in latino, nella lettera a Vettori: per la prima parte); Il Principe, titolo vulgato (per la seconda parte).
Costanti ideologiche: la
Natura umana è “aperta” (varia, contraddittoria) e immutabile
nel corso del tempo; la realtà oggettiva dotata di leggi proprie, da conoscere.
«Verità effettuale»: ‘effettiva’, ‘che produce effetti’ (contrapposta all’ideale,
all’utopistico). La virtù indipendente dalla morale. Caratteri del buon
principe.
Problema
del presunto “repubblicanesimo” di
M. > il suo pensiero si sviluppa nel tempo ed è vario: per lui conta l’efficacia
più delle forme di governo. In linea di principio, sarebbe “repubblicano”
(forma che lui chiama “vivere libero” della comunità = “senza un re”); ma nei
fatti comprende che le circostanze possono richiedere un principe, un governo
assoluto più solido e meno conflittuale. Comunque non è mai repubblicano “puro”:
durante gli anni di impegno politico (fino al 1513) è piuttosto su posizioni oligarchiche,
si schiera con il Gonfaloniere Pier Soderini; poi, dopo la “riabilitazione” è
con i Medici. Il principe civile
mediceo, soluzione in funzione dell’unificazione d’Italia. M. abbandona
definitivamente le speranze repubblicane tra la caduta di Soderini (1512) e la morte
di Lorenzo il giovane.
I Discorsi sopra la
prima deca di Tito Livio. Un libro incompiuto, come prova la frequenza degli errori e delle imperfezioni:
su 58 citazioni da Livio, solo 9 sono corrette (Ridley) > la cultura di M.
non è propriamente umanistica: non scrive in latino, non è filologo. La sua è
una cultura varia, ricca, ma disordinata: classici antichi, ma anche testi
della tradizione volgare fiorentina, e testi giuridici.
Una prima
bozza dei Discorsi si intitolava il Libro
delle repubbliche, come annuncia nel Principe. Una genesi dunque
che va dagli anni soderiniani (1506-12, prob. 1510-‘11), alla stesura della
forma attuale del libro, anni ’17-’18.
Struttura: in tre libri come un commento ai primi dieci
libri dell’Ab Urbe condita di Tito
Livio, divisi secondo il criterio di analizzare prima i fatti accaduti a
Roma per consiglio pubblico, poi ciò che i Romani fecero all’esterno, infine le
azioni di quegli uomini che, per le loro doti particolari, contribuirono alla
grandezza romana.
La
finalità non è un semplice omaggio all’antichità, ma una sua rilettura in
funzione delle esigenze pratiche del suo tempo. Riflettendo sulla crisi della
Repubblica romana, M. affronta il tema della diversità delle forme di governo, che facilmente possono scivolare
nella degenerazione: il principe buono può diventare tiranno, che può essere
sconfitto dagli Ottimati (aristocratici), che a loro volta possono divenire
oligarchi, abbattuti da una repubblica popolare che però tende alla
licenziosità.
L’analisi
di M. giunge alla conclusione di considerare il conflitto come motore dell’azione politica: lo scontro tra
patrizi e plebei in Roma fu un bene (Discorsi, I, 4), in grado di far crescere la
comunità politicamente e militarmente attraverso la continua competizione e il
continuo equilibrio di poteri.
Emerge in
maniera evidente la riflessione sulla repubblica e sulla libertà politica. Il
suo “repubblicanesimo” è in primo luogo
adesione ai principi del «vivere
politico civile», cioè all’ideale di una repubblica fondata sul governo della
legge e del bene comune. Ma anche qui non si tratta di repubblicanesimo
“assoluto”, bensì di affrontare il problema del potere e dello Stato da
un’altra angolatura, ricollegandosi alla grande tradizione fiorentina
quattrocentesca, da Coluccio Salutati a Leonardo Bruni (che polemizza contro
Milano), a Poggio Bracciolini che difende Scipione contro Guarino che esalta
Cesare (avversato da Machiavelli), a Giovanni Cavalcanti o Matteo Palmieri. Di
fatto, in generale l’opposizione è (I, 25) tra il «vivere politico» e la tirannide
intesa come potere al di sopra delle leggi e alla corruzione intesa come
degenerazione del vivere civile. D’altra parte, le posizioni repubblicane vi
convivono con esaltazioni dell’oligarchia veneziana e addirittura con spunti
monarchici.
Da non
trascurare il pregio stilistico: il “nitore
della prosa”, la verve novellistica
(Martelli).
L’arte della guerra (1521, unico testo a stampa in vita di M.)
sottolinea nei suoi 7 libri come la
capacità militare costituisca un valore fondamentale per dare stabilità a un
governo. Pertanto un buon reggitore di uno Stato non può in alcun modo
ignorarla, se vuole evitare i grandi spaventi (1. VIII) cui erano stati
condannati «i nostri principi italiani»
quando avevano ritenuto che «bastasse
sapere negli scrittoi pensare una acuta risposta a una bella lettera».
Facendo tesoro dell’esperienza dei Romani, è necessario fare uso di una milizia
propria, che abbiano virtù civili alla capacità militare, evitando il ricorso a
soldati di professione, che nella difesa di una patria non possono possedere
quello slancio ideale proprio di chi vi appartiene.
Le Istorie
fiorentine, furono presentate al papa Giulio II nel 1526. In otto libri, dopo un'introduzione generale sulla storia d'Italia e d'Europa (libro I), tratta la storia di Firenze dal 1215 (origine della lotta tra Guelfi e Ghibellini) alla morte di Lorenzo il Magnifico (1492) Machiavelli
attribuisce proprio al papato le responsabilità di quella disunione che aveva
portato alla decadenza italiana, e in particolare quella di Firenze, dilaniata
da contese di carattere privato dovute alla litigiosità e alla visione limitata
della classe dirigente
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