Petrarca sul Ventoso

Petrarca e suo fratello scalano una montagna. Una grande metafora dell'ascesi interiore. Una sfida all'iea di conversione agostiniana. Modernità.

La coscienza della molteplicità e della contraddizione trova la sua espressione esemplare, dal punto di vista ideologico e artistico, in una della lettere più riuscite dell’epistolario petrarchesco, la celebre Familiare IV, 1, indirizzata al monaco agostiniano Dionigi da Borgo San Sepolcro e nota come “Ascesa al Monte Ventoso”. La lettera è ambientata alla fine degli anni trenta, ma in realtà fu scritta – come ha dimostrato Giuseppe Billanovich – nello stesso torno d’anni del sonetto proemiale e dei progetti autobiografici, appartiene al medesimo ambito di riflessioni e ha una precisa intenzione programmatica. Petrarca racconta, rielaborandola chiaramente in senso metaforico, un’escursione in compagnia di suo fratello Gherardo alla cima di questo monte provenzale da cui è possibile contemplare sia l’Italia che la Francia. Ma mentre il fratello (il quale, si ricordi, si era fatto monaco alcuni anni prima della stesura dell’epistola), procede spedito per il cammino più diretto, il poeta sembra perdersi per i meandri della montagna:

io, più fiacco, ridiscendevo verso il basso, e a lui che mi chiamava mostrandomi la via giusta rispondevo che speravo di trovare un più facile accesso dall’altro fianco del monte, e che non mi rincresceva di fare una via più lunga ma più agevole. Era questo un pretesto per scusare la mia pigrizia, e mentre i miei compagni erano ormai in cima, io erravo [errabam] ancora nelle valli senza che mi apparisse da alcuna parte una via migliore; il cammino diveniva più lungo e l’inutile fatica mi stancava. Finalmente, ormai annoiato e pentito di quegli andirivieni [perplexi… erroris], mi decisi a dirigermi direttamente in su[1].

Sulla falsariga metaforica dell’error, vagabondaggio fisico e cifra dell’incertezza, della ricerca e del dubbio, si libra la battaglia della volontà contro i fantasmi delle «terrenas et infimas voluptates». Infine, giunto faticosamente alla cima, Petrarca ammira il magnifico spettacolo del paesaggio alpino, sente il richiamo della patria e medita sul proprio passato sul filo delle Confessioni  di Agostino: «voglio ricordare le passate turpitudini e i peccati carnali, non perché io li ami, ma per amare te, mio Dio». Tuttavia, una volta ancora, la sua “conversione” è parziale e si manifesta in una “confessione” rivolta non a un religioso, ma a se stesso:

Molto ancora rimane in me di molesto e d’incerto. Non amo più ciò che solevo amare; dirò meglio: l’amo, ma meno; e anche così mentisco: l’amo, ma con più vergogna e tristezza; ecco che finalmente ho detto la verità. Poiché è proprio così: amo ciò che vorrei non amare, anzi, che vorrei odiare; amo, ma di mal animo, costretto, addolorato, triste e piangente[2].

Finalmente, gli sovviene il libro delle Confessioni, un dono di Dionigi che aveva portato con sé, e aprendolo gli càpitano sotto gli occhi le parole di esortazione alla meditazione e allo scavo interiore contenute nel libro X: «e gli uomini se ne vanno ad ammirare gli alti monti e i grandi flutti del mare e i larghi letti dei fiumi e l’immensità dell’oceano e il corso delle stelle; e trascurano se stessi».
            La testura di citazioni classiche (soprattutto da Seneca) e il duplice gioco di specchi tra lo scrittore e se stesso e tra Francesco e Agostino (con la mediazione dell’agostiniano Dionigi) non fanno che ribadire l’ineludibile condizione dell’uomo già moderno, cioè già staccato dall’ordine teologico e pienamente immerso in quello della storia. Ciò che per il Padre della Chiesa aveva significato una conversione inequivocabile, per Petrarca è invece un programma esistenziale e culturale in cui l’ascesa non è più, al modo medievale, itinerarium verso il divino, ma stimolo, espresso in termini virgiliani, a «conoscere le ragioni delle cose» (rerum cognoscere causas: Georgiche, II, 490), invito a continuare nella ricerca di sé, del proprio “io”, senza certezze, ma solo nella speranza che i suoi pensieri «da vaghi e incerti come sono, un giorno abbiano posa, e dopo essersi inutilmente volti qua e là, si volgano alfine a ciò che è unico, buono, vero e sicuro»[3].


[1] Le Familiari, edizione critica a cura di V. Rossi, vol. I, Firenze, Sansoni, 1933 (rist. anastatica, Firenze, Le Lettere, 1997), pp. 153-61; trad. di E. Bianchi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955, p. 835.
[2] Ivi, p. 839.
[3] Ivi, p. 845.

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