30/11/17

Il tiranno biblico

10 Samuele riferì tutte le parole del SIGNORE al popolo che gli domandava un re. 11 Disse: «Questo sarà il modo di agire del re che regnerà su di voi. Egli prenderà i vostri figli e li metterà sui carri e fra i suoi cavalieri e dovranno correre davanti al suo carro; 12 ne farà dei capitani di migliaia e dei capitani di cinquantine; li metterà ad arare le sue terre e a mietere i suoi campi, a fabbricare i suoi ordigni di guerra e gli attrezzi dei suoi carri. 13 Prenderà le vostre figlie per farsene delle profumiere, delle cuoche, delle fornaie. 14 Prenderà i vostri campi, le vostre vigne, i vostri migliori uliveti per darli ai suoi servitori. 15 Prenderà la decima delle vostre sementi e delle vostre vigne per darla ai suoi eunuchi e ai suoi servitori. 16 Prenderà i vostri servi, le vostre serve, il fiore della vostra gioventù e i vostri asini per adoperarli nei suoi lavori. 17 Prenderà la decima delle vostre greggi e voi sarete suoi schiavi. 18 Allora griderete a causa del re che vi sarete scelto, ma in quel giorno il SIGNORE non vi risponderà».
(I Samuele 10-18)

29/11/17

Il judo e Machiavelli (o viceversa)

Resultado de imagenResultado de imagen de jigoro kano Il Judo, quest'antica e iper-regolamentata arte di lotta giapponese, è una pratica molto machiavelliana. L’arte di invertire i pronostici. Il debole vince il forte, la forza dell'altro usata per moltiplicare la propria - come si vide nel lontano 1886, quando i giovani judoka di Jigoro Kano, il padre fondatore del Judo, si imposero all’onnipontente scuola di ju-jutsu (la dura arte marziale sino ad allora imperante) del Maestro Hikosuke Totsuka, nel titanico scontro per il titolo di allenatori ufficiali della polizia di Tokio.

Il Judo fa della debolezza, forza, perché non è altro che un insieme di pratiche per imbrigliare un aggressore, ma - più ancora e più in generale - per imparare a valutare, soppesare, sempre, l'esatta dimensione degli altri, la reale consistenza - il fiato il sudore lo sguardo ravvicinato lo sforzo la speranza la disperazione... - di un individuo, dell'individuo.

Il Judo è cedevole, flessibile, adattabile – ju, come il giunco. Ma sa cadere. Per questo si rialza.
E quando si rialza, sa dove andare, conosce la via per proseguire: –do, la “via”, appunto, il “sentiero”, il percorso: in senso fisico e in senso spirituale, perché, al pari dei migliori di noi, gli orientali sanno che queste dimensioni non si possono e non si devono scindere.

E certo, anche il judo nasce da un fratricidio - come Roma, come le grandi imprese: “Kano scelse per il suo metodo il nome di Judo, ma per distinguersi da un'altra scuola, Jikishin Ryu, che aveva usato questo termine, completò il nome in Judo Kodokan” (Storia del judo, Uisp Nazionale).

Jigoro Kano, il padre fondatore, lasciò detto: 
«Il Judo non è soltanto uno sport. Io lo considero un principio di vita, un’arte e una scienza [...]. Deve essere libero da qualsiasi influenza esteriore, politica, nazionalista, razziale, economica, od organizzata per altri interessi. Tutto ciò che lo riguarda non dovrebbe tendere che a un solo scopo: il bene dell’umanità».  Proprio come la Politica.


...E no, questo non si porta all'esame. ;)

20/11/17

Cicerone, Machiavelli e l'Occasione

E essaminando le azioni e vita loro, non si vede che quelli avessino altro da la fortuna che la occasione, la quale dette loro materia a potere introdurvi drento quella forma che parse loro: e sanza quella occasione la virtù dello animo loro si sarebbe spenta, e sanza quella virtù la occasione sarebbe venuta invano.
(Il Principe, cap. VI)

Cicerone tratta dell'occasione, occasio, nel suo De officiis, all'interno della trattazione del concetto di decoro, cioè il senso della misura, dell'appropriatezza, dell'opportunità.
Ecco il passo (De officiis I, 142-143):




...E, naturalmente, il Capitolo Dell'Occasione ;)

- Chi se' tu, che non par' donna mortale,
di tanta grazia el ciel t'adorna e dota?
Perché non posi? e perché a' piedi hai l'ale? -
- Io son l'Occasione, a pochi nota;
e la cagion che sempre mi travagli,
è perch'io tengo un piè sopra una rota.
Volar non è ch'al mio correr s'agguagli;
e però l'ali a' piedi mi mantengo,
acciò nel corso mio ciascuno abbagli.
Li sparsi mia capei dinanti io tengo;
con essi mi ricuopro il petto e 'l volto,
perch'un non mi conosca quando io vengo.
Drieto dal capo ogni capel m'è tolto,
onde invan s'affatica un, se gli avviene
ch'i' l'abbi trapassato, o s'i' mi volto. -
- Dimmi: chi è colei che teco viene? -
- È Penitenzia; e però nota e intendi:
chi non sa prender me, costei ritiene.
E tu, mentre parlando il tempo spendi,
occupato da molti pensier vani,
già non t'avvedi, lasso! e non comprendi
com'io ti son fuggita tra le mani. 


15/11/17

Massime dal "Principe".

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  Tutti gli Stati, tutti i dominii che hanno avuto, e hanno imperio sopra gli uomini, sono stati e sono o Repubbliche o Principati. I principati sono o ereditari, de' quali il sangue del loro Signore ne sia stato lungo tempo Principe, o e' sono nuovi. I nuovi o sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del Principe che gli acquista, come è il Regno di Napoli al Re di Spagna. Sono questi dominii, così acquistati, o consueti a vivere sotto un Principe, o usi ad esser liberi; ed acquistansi o con le armi di altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù.
(Il Principe, incipit).

La natura de' populi è varia; ed è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione.
(cap. VI)

Perché in ogni città si trovano questi duoi umori diversi, e nascono da questo, che il popolo desidera non esser comandato nè oppresso da' grandi, e i grandi desiderano comandare e opprimere il popolo; e da questi duoi appetiti diversi surge nelle città uno de' tre effetti, o Principato, o Libertà, o Licenza.  (cap. IX)

Quello del popolo è più onesto fine che quel de' grandi, volendo questi opprimere, e quello non essere oppresso (cap. IX).

E molti si sono imaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché egli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare impara piuttosto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, e usarlo e non l’usare secondo la necessità. (cap. XV)

Deve nondimeno il Principe farsi temere in modo, che, se non acquista l'amore, e' fugga l'odio, perché può molto bene stare insieme esser temuto, e non odiato; il che farà, semprechè s'astenga dalla roba de' suoi cittadini, e de' suoi sudditi, e dalle donne loro. (cap. XVII)

Nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de' Principi, dove non è giudizio a chi reclamare, si guarda al fine. Facci adunque un Principe conto di vivere e mantenere lo Stato; i mezzi saranno sempre giudicati onorevoli, e da ciascuno lodati (cap. XVIII)

Gli uomini in universale giudicano più agli occhi che alle mani, perché tocca a vedere a ciascuno, a sentire a pochi. Ognun vede quel che tu pari, pochi sentono quel che tu sei (cap. XVIII)

Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, giudico potere esser vero, che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ancora ella ne lasci governare l'altra metà, o poco meno, a noi. Ed assomiglio quella ad fiume rovinoso, che quando ei si adira, allaga i piani, rovina gli arbori e gli edifici, lieva da questa parte terreno, ponendolo a quell'altra; ciascuno gli fugge davanti, ognuno cede al suo furore, senza potervi ostare; e benché sia così fatto, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi possino fare provvedimenti e con ripari, e con argini, immodoché crescendo poi, o egli andrebbe per un canale, o l'impeto suo non sarebbe sì licenzioso, né sì dannoso. Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resistere, e quivi volta i suoi impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini, né i ripari a tenerla. (cap. XXV)