Il Judo, quest'antica e iper-regolamentata arte di lotta giapponese, è una pratica molto machiavelliana. L’arte di invertire i pronostici. Il
debole vince il forte, la forza dell'altro usata per moltiplicare la propria - come si vide nel lontano 1886, quando i giovani judoka di Jigoro Kano, il padre fondatore del Judo, si imposero all’onnipontente scuola di ju-jutsu (la dura arte marziale sino ad allora imperante) del Maestro Hikosuke Totsuka, nel titanico scontro per il titolo di allenatori ufficiali della polizia di Tokio.
Il Judo fa della debolezza, forza, perché non è altro che un insieme di pratiche per imbrigliare un aggressore, ma - più ancora e più in generale - per imparare a valutare, soppesare, sempre, l'esatta dimensione degli altri, la reale consistenza - il fiato il sudore lo sguardo ravvicinato lo sforzo la speranza la disperazione... - di un individuo, dell'individuo.
Il Judo è cedevole, flessibile, adattabile – ju, come il giunco. Ma sa cadere. Per
questo si rialza.
E quando si rialza, sa dove andare, conosce la via per proseguire: –do, la “via”, appunto, il “sentiero”, il percorso: in senso fisico e in senso spirituale, perché, al pari dei migliori di noi, gli orientali sanno che queste dimensioni non si possono e non si devono scindere.
E certo, anche il judo nasce da un fratricidio - come Roma, come le grandi imprese: “Kano scelse per il suo metodo il
nome di Judo, ma per distinguersi da un'altra scuola, Jikishin Ryu, che aveva
usato questo termine, completò il nome in Judo Kodokan” (Storia del judo,
Uisp Nazionale).
«Il Judo non è
soltanto uno sport. Io lo considero un principio di vita, un’arte e una scienza
[...]. Deve essere libero da qualsiasi
influenza esteriore, politica, nazionalista, razziale, economica, od organizzata
per altri interessi. Tutto ciò che lo riguarda non dovrebbe tendere che a un solo scopo: il bene dell’umanità». Proprio come la Politica.
...E no, questo non si porta all'esame. ;)
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