24/11/16

Il contrappasso dei barattieri (Inf., XXI)


 


L'interpretazione, letterale e allegorica, di Francesco da Buti, Commento alla Commedia






E la pena ch’elli à ordinata a questo peccato è questa, ch’elli finge che tali peccatori sieno messi sotto una pegola bogliente, nera et oscura, spessa et inveschiativa et addentati con piú di cento raffi e guardati da’ demoni chiamati Malebranche, armati di graffi; e queste pene degnamente si convengono a tali peccatori: imperò che come sono stati impaniati nel mondo dai danari o d’altro dono equivalente, sicchè non ànno avuto poi podestà di seguire la ragione, cosí sieno di là impegolati; e come nel mondo sono arsi dall’avarizia, cosí di là bollano; e come nel mondo ànno cercato con fraude appiattamento e scurità alla loro baratteria, cosí sieno messi sotto la nera et oscura pegola; e come sono stati impacciatori l’uno dell’altro nelli ofi ci, cosí siano inveschiati nella spessa pegola; e come l’uno à tirato dall’altro la pecunia, cosí sieno di là afferrati e tirati dai demoni con li uncini; e come ànno avuto l’animo disideroso di rapina e sono stati rapaci con le mani uncinute a tirare a sè, cosí sieno guardati dai demoni, chiamati Malebranche con li graffi e raffi che li graffi no con essi, in vendetta della loro rapina. E queste medesime condizioni che l’autor finge essere di là litteralmente, secondo moralità possiamo credere che allegoricamente intendesse per li mondani: però che stanno sempre nella pegola, in quanto stanno sempre occupati e non sono liberi a fare quello che deono per quello che ànno ricevuto; e però si può dire dell’oficiale corrotto: Elli è impaniato e sta sotto: imperò che quanto può occultamente adopera in questo; e similmente il corruttore. E sono nella pegola bogliente, in quanto l’uno e l’altro è nell’avarizia inveschiato la quale sempre bolle; sono similmente nella nerezza et oscurità, quanto alla coscienzia che non è chiara, e quanto alla fama; sono inveschiati in quanto sono imbruttiti d’uno peccato medesimo di fraude, con che l’uno inveschia l’altro et inganna; sono uncinati: imperò che l’uno tira e sgraffi a, rapendo dall’altro: lo corrotto con l’opera del suo ofi zio straccia lo corruttore, e corrottore con la pecunia straccia lo corrotto, togliendogli la giustizia e la fama; sono guardati dalli demoni, detti Malebranche, coi graffi , in quanto l’uno e l’altro continuamente è tentato di rapire.

22/11/16

Nigra sum, sed formosa


Dietro la metafora della Chiesa come sposa e della sua trasformazione in meretrix da parte di traditori e falsi profeti, che agisce in Inferno XIX, c'è uno dei canti d'amore  più affascinanti della storia umana: il Cantico dei Cantici, una sorta di epitalamio che per secoli la Chiesa ha interpretato come metafora dell'unione tra Cristo (e i suoi vicari) e la Chiesa.

E non dimentichiamo mai che la sposa del Cantico ha la pelle nera!



[1]Come sei bella, amica mia, come sei bella!
Gli occhi tuoi sono colombe,
dietro il tuo velo.
Le tue chiome sono un gregge di capre,
che scendono dalle pendici del Gàlaad.
[2]I tuoi denti come un gregge di pecore tosate,
che risalgono dal bagno;
tutte procedono appaiate,
e nessuna è senza compagna.
[3]Come un nastro di porpora le tue labbra
e la tua bocca è soffusa di grazia;
come spicchio di melagrana la tua gota
attraverso il tuo velo.
[4]Come la torre di Davide il tuo collo,
costruita a guisa di fortezza.
Mille scudi vi sono appesi,
tutte armature di prodi.
[5]I tuoi seni sono come due cerbiatti,
gemelli di una gazzella,
che pascolano fra i gigli.
[6]Prima che spiri la brezza del giorno
e si allunghino le ombre,
me ne andrò al monte della mirra
e alla collina dell'incenso.
[7]Tutta bella tu sei, amica mia,
in te nessuna macchia.
[8]Vieni con me dal Libano, o sposa,
con me dal Libano, vieni!
Osserva dalla cima dell'Amana,
dalla cima del Senìr e dell'Ermon,
dalle tane dei leoni,
dai monti dei leopardi.
[9]Tu mi hai rapito il cuore,
sorella mia, sposa,
tu mi hai rapito il cuore
con un solo tuo sguardo,
con una perla sola della tua collana!
[10]Quanto sono soavi le tue carezze,
sorella mia, sposa,
quanto più deliziose del vino le tue carezze.
L'odore dei tuoi profumi sorpassa tutti gli aromi.
[11]Le tue labbra stillano miele vergine, o sposa,
c'è miele e latte sotto la tua lingua
e il profumo delle tue vesti è come il profumo del Libano.
[12]Giardino chiuso tu sei,
sorella mia, sposa,
giardino chiuso, fontana sigillata.
[13]I tuoi germogli sono un giardino di melagrane,
con i frutti più squisiti,
alberi di cipro con nardo,
[14]nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo
con ogni specie d'alberi da incenso;
mirra e aloe
con tutti i migliori aromi.
[15]Fontana che irrora i giardini,
pozzo d'acque vive
e ruscelli sgorganti dal Libano. 

13/11/16

02/11/16

Gerione


Direttamente dalla mitologia classica...                        

Virgilio, Eneide VI, 286-91:                                          

Centauri in foribus stabulant Scyllaeque biformes
et centumgeminus Briareus ac belua Lernae
horrendum stridens, flammisque armata Chimaera,
Gorgones Harpyiaeque et forma tricorporis umbrae.
corripit hic subita trepidus formidine ferrum
Aenea…
 E inoltre numerose figure mostruose di diverse fiere hanno dimora sulle porte: i Centauri e le Scille biformi, Briàreo dalle cento braccia e l'idra di Lerna, che stride orribilmente e la Chimera armata di fiamme, le Gorgoni e le Arpie e il fantasma dell'ombra dai tre corpi. Qui Enea (trad. G. Bonghi)

...Attraverso l'Apocalisse (IX, 7-11)
[7]Queste cavallette avevano l'aspetto di cavalli pronti per la guerra. Sulla testa avevano corone che sembravano d'oro e il loro aspetto era come quello degli uomini. [8]Avevano capelli, come capelli di donne, ma i loro denti erano come quelli dei leoni. [9]Avevano il ventre simile a corazze di ferro e il rombo delle loro ali come rombo di carri trainati da molti cavalli lanciati all'assalto. [10]Avevano code come gli scorpioni, e aculei. Nelle loro code il potere di far soffrire gli uomini per cinque mesi. [11]Il loro re era l'angelo dell'Abisso, che in ebraico si chiama Perdizione, in greco Sterminatore. 

...Passando per Isidoro:
[28] Dicuntur autem et alia hominum fabulosa portenta, quae non sunt, sed ficta in causis rerum interpretantur, ut Geryonem Hispaniae regem triplici forma proditum. Fuerunt enim tres fratres tantae concordiae ut in tribus corporibus quasi una anima esset.
(Etymologiae XI, 3, 28)

...Per approdare a Brunetto Latini, Alberto Magno e, dopo Dante, Boccaccio (Genealogie deorum gentilium I, 21), dove si vede perché simboleggia la frode: "miti vultu blandisque verbis et omni comitatu consuevit hospites suscipere, et demum sub hac benignitate sopitos occidere".





26/10/16

I ponti su Malebolge

La struttura di Malebolge, e in particolare i ponticelli che collegano un bolgia dall'altra, sono sempre stati oggetto di studi e controversie.


23/10/16

Dio Natura e Arte


Dal Genesi:
II, 15
15 Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.

III, 17
17 All'uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita.
18 Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba campestre.
19 Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!».

L'usuraio contavviene a questa legge, perché si appropria di ciò che non è suo (il Tempo) e lo sfrutta per evitare il lavoro. Perciò Dante li punisce come violenti "contro l'arte": cioè il lavoro, ma anche l'ingegno, umano.

21/10/16

Topografia di Malebolge



Malebolge è un luogo topograficamente realistico e al tempo stesso immaginario. Di certo, esso ha una sua struttura fisica che da secoli affascina gli interpreti. Il dato macroscopico è che non vi è corrispondenza tra le dieci bolge che compongono l'VIII cerchio e i 13 canti (canti XVII-XXX) in cui esso è descritto.

Su questo argomento hanno scritto in molti, in particolare si segnalano gli articoli di T. Cachey e E. Rebuffat.



13/01/16

Poliziano e la fine dell'umanesimo


**. Nel suo insieme, la fisionomia dell’umanesimo italiano appare ben differenziata tra una prima fase – la “lunga” prima metà del XV secolo, sino agli anni sessanta – e una fase successiva che si protrae sino alla fine del secolo – con il 1494, anno dell’invasione francese della penisola e inizio della fine delle condizioni sociali e politiche favorevoli allo sviluppo autonomo della cultura umanistica. La prima fase – la più lunga, tumultuosa e feconda di cambiamenti – culmina per l’appunto con le figure gigantesche di Lorenzo Valla e Leon Battista Alberti, i quali riassumono nella loro attività, ciascuno a suo modo, le acquisizioni più importanti della grande avventura culturale dell’umanesimo. Nell’ultimo terzo del secolo, si assiste invece a una progressiva specializzazione e “normalizzazione” del movimento umanistico, che si incammina verso il ripiego erudito e la squisitezza metodologica, ma abbandonando progressivamente l’impulso riformatore e totalizzante delle generazioni precedenti, che sopravvisse soltanto in qualche ridotto effimero o in personaggi isolati. Ma nel suo lungo “canto del cigno” l’umanesimo italiano ancora vide l’emergere di grandi figure della cultura e della letteratura.
Ermolao Barbaro muore nel 1493, Angelo Poliziano nel 1494. Vent’anni dopo, Romolo Amaseo informava suo padre che

a Roma la prima lectura, la qual ha per el presente el Pio [Giovanni Battista Pio], non excede ducati cento mal paghati, ed il medesimo intendo essere a Venetia. A Milano, Pavia, Ferrara tutte lecture d’humanità cessano, in tal modo che li valenti homini mendicano bassissimi partiti, come Iano Parrhasio il quale tien schola in Calabria, Iacomo di la Croce a Luca, et qui in Bologna lezemo cinque over sei per ducento ducati, li quali non varessemo tutti inseme un honorevol pedante.

Il padre di Romolo, è utile ricordarlo, era quel Gregorio che si diceva convinto di essere «de’ primi del mondo», giurava che neanche per mille ducati si sarebbe fatto «maistro de scola» e sperava di guadagnare come «famoso professor de humanità» più del «primo advocato che sia stato da nostro recordo in Friuli».
Che cos’era accaduto in quel volgere di secolo? Giovanni Pozzi ha tratteggiato magistralmente alcune delle cause di questa situazione: «scompaiono prima gli uomini migliori, quasi in un sol colpo e nel fiore dell’età, si disperdono poi i maestri più validi sotto l’incalzare delle guerre e lo sfasciarsi delle forze economiche». Ma se queste cause “esterne” sono senz’altro di peso, è vero anche che la crisi proveniva dall’interno stesso degli studia humanitatis, che perdevano lo spirito dell’avanguardia e la vocazione all’engagement sociale, e si avviavano sul cammino della normalizzazione, che prevedeva una ridefinizione sociale e culturale, con la nuova distribuzione dei ruoli e degli interessi fra “maistri di scola”, “professori di humanità” e di altre discipline, e con «un pubblico di gentiluomini colti, non professionisti della cultura»[1], vale a dire i figli dei potenti che possono esibire un impeccabile curriculum pedagogico umanistico, molto superiore a quello dei loro padri, ma non pretendono di competere sul terreno dell’erudizione con i loro precettori. La grande etica umanistica si avvia a trasfomarsi nell’etichetta cinquecentesca, e l’umanista si confonde col gentiluomo.
Insieme con il tramonto della philosophia Christi modellata sull’eloquentia, lo stesso Erasmo vide come gli studia humanitatis andassero progressivamente perdendo quella funzione di avanguardia che nel corso del Quattrocento avevano avuto nella battaglia della conoscenza («certemus, quaeso, honestissimum hoc pulcherrimmumque certamen»), consumando il tesoro di testi e di prospettive che aveva consentito loro, con poche geniali intuizioni, il rinnovamento del sapere e delle esperienze, e cessando di essere quella stella polare che avrebbe dovuto condurre alla nascita di un mondo migliore. In quanto filologia, non erano ormai che una disciplina tra le altre; nella scuola, da nucleo centrale che erano stati, passavano a semplice ornamento; accanendosi sulla letteratura e sull’arte, le trascinavano verso il baratro dell’accademismo. Non si può parlare di una sconfitta, dal momento che una tale situazione era stata determinata proprio dagli studia humanitatis: la grandezza dell’umanesimo consiste proprio nell’aver aperto talmente tante prospettive che a da un certo momento in poi ne risultò compromessa quella sua tendenza costitutiva all’egemonia, all’annessione, e fu giocoforza che altre forme di conoscenza si facessero strada in modo autonomo. Il che non toglie che anche le scienze vivificate da un secolo di recuperi umanistici – dalla botanica alla zoologia, dal diritto alla stessa filosofia – si abbeverassero ancora a lungo alle fonti dell’umanesimo. Ma la carica innovatrice e “di rottura”, l’aspirazione a costituirsi in criterio di orientamento e di azione, si era esaurita, e in Italia prima che altrove, proprio perché qui gli esiti erano stati particolarmente intensi e raffinati, e quasi repentina fu la stanchezza e il ripiego – fatte salve singole figure di eccezionale spessore intellettuale e morale, su tutti Giovanni Pontano.
È dunque comprensibile la soluzione di ripiegare nella fortezza della Altertumwissenschaft, i cui segnali già si scorgono nella proliferazione di commenti enciclopedici ai testi classici nell’ultimo terzo del secolo, come quelli di Calderini, Merula, Beroaldo e, naturalmente, Angelo Poliziano (1454-94), il principale e più raffinato esponente di questa tendenza[2]. Nelle vesti del grammaticus onnicomprensivo, sarebbe stato possibile salvaguardare quella dovizia di metodologie storiche e letterarie che già allora erano il contributo umanistico destinato a perdurare più a lungo nel tempo e a prezzo di minori cambiamenti. Ma la contropartita fu la torre d’avorio, la rivendicazione del ruolo distinto e separato del grammaticus: se Pontano ancora poteva inorgoglirsi di essere chiamato “filosofo”, Poliziano si dichiara invece apertamente «interprete di Aristotele [...] non filosofo»[3]. E se i Miscellanea evidenziano un’ansia “crepuscolare” di catalogazione ed esegesi totalizzante dell’antichità con gli strumenti di una sofisticata filologia sorretta da un’incipiente tecnica critico-testuale di carattere già scientifico[4], le prolusioni in versi ai corsi accademici, le celebri Silvae, sono funzionali – indipendentemente dai risultati estetici e dall’innegabile perizia formale – alla missione pedagogica del professore che si compiace e addita a modello la propria straordinaria erudizione, palese nella massa asfissiante di riferimenti peregrini, nella severità e finanche la pedanteria dei dati, estenuante nella ricerca ossessiva del dato minore, dell’allusione criptica, di cui sono un esempio i lunghi cataloghi di poeti nei Nutricia, in un tentativo, tutto letterario, de emulazione creativa estrema[5].
La filologia, ridotta a critica del testo ed esegesi minuta, nulla ha più da chiedere alla letteratura che non sia letteratura. Così, giungerà sino a noi. Ma avrà rinunciato al sogno, forse all’utopia, di creare un mondo diverso e migliore. 

** Materiali parzialmente provenienti dal saggio Umanesimo: Italia ed Europa, in collaborazione con F. Rico, Torino, Utet, in corso di stampa.


[1] C. Dionisotti, prologo a Aldo Manuzio editore. Dediche, prefazioni, note ai testi, a cura di G. Orlandi, Milano, Il Polifilo, 1975, vol. I, p. xli; ora in Aldo Manuzio umanista e editore, ivi, 1995, p. 127.
[2] Dopo l’articolo pionieristico di C. Dionisotti, Calderini, Poliziano e altri, «Italia Medioevale e Umanistica» XI (1968), pp. 151-85, parte del cammino è stato percorso nello studio del commentario umanistico: basti citare in questa sede l’esemplare studio di M. Campanelli, Polemiche e filologia ai primordi della stampa. Le Observationes di Domizio Calderini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2001.
[3] Cit. in V. Branca, Poliziano e l’umanesimo della parola, Torino, Einaudi, 1983, p. 14.
[4] Si veda ivi, il capitolo su Il nuovo metodo filologico e la Centuria secunda, pp. 156-81.
[5] Sulla Silvae, un quadro d’insieme, che ne mette in luce la straordinaria tecnica “a mosaico” e le ragioni gnoseologiche profonde, si può leggere nell’Introduzione di F. Bausi alla sua edizione di A. Poliziano, Silvae, Firenze, Olschki, 1996, pp. xi-xxxi.