Il pianto di Magone

 L'ispirazione laica di Petrarca si evidenzia in un celebre passo dell’Africa – redatto intorno al 1343 e unico diffuso in vita dell’autore –, il cosiddetto “lamento di Magone” (libro VI, vv. 888-915), quando il fratello di Annibale, ferito a morte prima di abbandonare l’Italia, durante il viaggio di ritorno a Cartagine pronuncia le sue estreme parole:

Vedendo più da vicino l’ora suprema, cominciò: «Ahi! quale termine è dato a un’alta fortuna! Come s’acceca la mente nei  lieti successi! Una pazzia dei potenti è questa, godere di un’altezza vertiginosa. Ma quello stato è soggetto a innumeri procelle, e chi s’è levato in alto è destinato a cadere. Ahi sommità vacillante dei grandi onori, speranza fallace degli uomini, gloria vana rivestita di falsi allettamenti. Ahimé, come è incerta la vita, dedita a una fatica perpetua, come è certo il giorno di morte, né mai previsto abbastanza. Con che iniqua sorte è nato l’uomo sulla terra! Gli animali tutti riposano; l’uomo non ha mai quiete e per tutti gli anni affretta ansioso il cammino verso la morte. E tu sola, o morte, ottima tra le cose, scopri gli errori, disperdi i sogni della vita trascorsa. Ora vedo quante cose mi procacciai, oh! misero, invano, quante fatiche mi addossai di mia scelta, che avrei potuto tralasciare. Destinato a morire, l’uomo cerca di ascendere agli astri, ma la morte c’insegna quale sia il posto di tutte le nostre cose. A che giovò portare le armi contro il Lazio potente, distruggere con fiamme le case, turbare i patti del vivere umano, sconvolgere le città con triste tumulto? A che mi serve aver costruito alti palazzi adorni d’oro su mura di marmo se io dovevo per sinistro destino morire così sotto il cielo? Carissimo fratello, quali imprese prepari nell’animo, ahi, ignaro dell’acerbo fato, ignaro di me?». Disse, e lo spirito s’alzò libero nell’aere tanto da poter rimirare dall’alto a pari distanza e Roma e Cartagine[1].

Con i toni lirico-tragici del vanitas vanitatum, il brano manifesta l’inequivocabile scelta di campo petrarchesca in favore di una cultura, e persino di una concezione dell’uomo, radicalmente laica, e al tempo stesso si propone come una dichiarazione di poetica che rivendica l’autonomia della creazione letteraria nei confronti di ogni costrizione dogmatica. Le parole dell’eroe moribondo esprimono l’angoscia e la vertigine del vuoto dell’individuo giunto all’ora estrema, ma in esse non vi è alcun pentimento, nessuna invocazione a Dio: gli esseri umani condividono tutti, senza distinzioni di religione e di razza, un unico destino e un medesimo sentimento di fronte alla morte. Si tratta, infatti, di «un atteggiamento e un linguaggio che possono sgorgare da qualsiasi animo vigile», dal momento che «Petrarca lasciava deliberatamente da parte tutto quanto avesse a che fare con una serie di credenze e pratiche della massima importanza per un cristiano e si atteneva alle questioni di etica che i classici permettevano di illuminare con la “sapientia” data dalla sola natura, la “communis omnium sapientia”»[2].
            L’Africa, come si è detto, è nel suo complesso il tentativo (peraltro artisticamente, a quanto pare, poco riuscito) di dare alla cultura italiana un poema nazionale costruito intorno a una vicenda esemplare del passato glorioso di Roma. Ma il passo di Magone va ancora più in là, perché osa rappresentare una morte cristiana senza cristianesimo, e in questo modo, proprio dimostrando la concordia profonda delle due culture, religiosa e classica, finisce con l’abolire la singolarità della fede cristiana, mettendo in crisi «il significato sacrale della penitenza», nel nome di un’unica, universale idea di humanitas. Gli agostiniani che minacciarono di intentargli un processo inquisitoriale, e in genere i contemporanei che, sorpresi e allarmati, rimproverarono al poeta questo discorso «proprio di un cristiano» messo in bocca a un barbaro, dimostrarono di aver colto la novità della posizione del Petrarca, il quale a sua volta, nell’epistola Senile sopra ricordata, di molti anni più tarda, difendendo la sua posizione invocava proprio questa essenza comune a tutta l’umanità: «l’esame di se stesso, il rimorso della coscienza, il pentimento e la confessione sono cose comuni a tutti gli esseri ragionevoli»[3]. Questa matrice laica resterà uno dei nuclei costitutivi dell’umanesimo italiano.



[1] Africa, VI, vv. 888-915, in F. P. Poesie latine, a cura di G. Martellotti-E. Bianchi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1951, pp. 65-67 (trad. di G. Martellotti).
[2] F. Rico, Il sogno dell’Umanesimo. Da Petrarca a Erasmo, tr. it. Torino, Einaudi, 1998, pp. 130-31 (con ritocchi alla traduzione).
[3] Seniles, II, 1, in Prose, a cura di G. Martellotti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955, p. 1052 (trad. del curatore); cfr. Fubini, Pubblicità e controllo del libro nella cultura del Rinascimento, pp. 215-17 (cit. p. 217). 

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