L'ignoranza di Petrarca

La risposta di Petrarca a quattro giovani aristotelici, un po'  arroganti e presuntuosi, ma non cattivi.

«Il De sui ipsius et multorum ignorantia (L’ignoranza sua e di molti altri) fu composto tra il 1367 e il 1371. In forma di epistola all’amico Donato degli Albanzani, porta l’attacco umanistico al cuore dell’aristotelismo: «si eviti soprattutto Aristotele, non perché sbagli più degli altri, ma perché i suoi errori hanno più seguaci e maggiore autorità»[1]. Lo spunto risale alle visite che il poeta riceveva, durante il suo soggiorno a Venezia, da parte di quattro giovani aristotelici dell’élite cittadina, i quali erano soliti dibattere con lui di questioni culturali. Si tratta evidentemente di un dibattito simbolico, nel quale i giovani rappresentano la vecchia cultura scolastica mentre il vecchio Petrarca incarna il giovane sapere umanistico. Gli aristotelici definiscono il poeta «un uomo ignorante, ma buono». Ciò offre l’occasione, da una parte, per lanciare una critica serrata, a tratti dagli accenti satirici, contro il sapere scientifico delle università del suo tempo, dall’altra, per racchiudere in una summa coerente «le coordinate essenziali del suo pensiero», rivendicando «la dimensione fondamentalmente etica della sua concezione del sapere»[2].
         
Un celebre passo, alla fine del quale riecheggiano le parole culminanti dell’epistola del Ventoso, compendia questi due aspetti:

Per molti la cultura letteraria è strumento di superbia, a meno che non vada a capitare, ma è raro, in qualche anima buona e bene educata. Ecco che c’è quello che sa un sacco di cose sulle belve, sugli uccelli, sui pesci: sa quanti peli il leone ha in testa, e quante piume l’avvoltoio ha sulla coda, e con quanti tentacoli il polipo imprigiona il naufrago; sa come gli elefanti usino accoppiarsi di schiena e come restino gravidi per due anni, e come si tratti di animali docili e vivaci insieme e dotati d’una intelligenza simile a quella dell’uomo, e come riescano a vivere sino a due o tre secoli; come la fenice si lasci bruciare su un rogo di legna aromatica e, una volta bruciata, rinasca; come la remora riesca a fermare una nave lanciata a qualsiasi velocità, mentre è del tutto inoffensiva se la si toglie dall’acqua; come il cacciatore inganni la tigre con lo specchio; come l’Arimaspo [un popolo che gli antichi ubicavano al nord del Mar Nero] trafigga il grifo con lo spiedo; come le balene traggano in inganno i marinai con il loro ampio dorso; come sia infor­me il cucciolo dell’orsa, e come sia raro il parto della mula, e unico e per di più infelice quello della vipera, e come siano cieche le talpe e sorde le api, e come, infine, il coccodrillo sia l’unico animale che muove la mandibola superiore. Ma tutte queste cose sono in gran parte false, come s’è visto in molti casi di tal genere quando li si è avuti sott’occhio qui da noi, e comunque quelli che ce le raccontano non le hanno certo verificate: piuttosto, visto che qui non esistono, le hanno credute con più facilità, o le hanno inventate con più spudoratezza. Ma infine, fossero anche vere, non avrebbero nulla a che fare con la nostra felicità. A che cosa serve, io domando, conoscere la natura delle belve e degli uccelli e dei pesci e dei serpenti, e ignorare e trascurare la nostra natura di uomini, e lo scopo per il quale siamo nati, e dove siamo diretti?[3]

Con le armi dell’ironia e dell’invettiva, affilate da una padronanza della retorica classica eccezionale per l’epoca, Petrarca combatte l’aristotelismo medievale colpevole di assoggettarsi acriticamente ai dettami del maestro e di privilegiare le «scienze naturali a scapito della letteratura e della filosofia morale»[4]. È il vano tecnicismo dei moderni, il vociare inutile dell’«insana e litigiosa massa degli scolastici», privo di contenuti e inadatto al miglioramento interiore dell’essere umano:

Mi ascoltino tutti gli aristotelici [...] ascoltino tutti quelli che stanno in Italia e in Francia e nella litigiosa Parigi, e nel petulante vico degli Strami. Credo d’aver letto tutti i libri di morale di Aristotele, alcuni li ho anche sentiti esporre, e pareva persino che ne capissi qualcosa, prima che si scoprisse tutta questa mia ignoranza. Ebbene, tornando a guardare in me stesso, può darsi che per merito loro io mi sia ritrovato un po’ più erudito, ma non reso migliore, come invece sarebbe dovuto succedere, ed ho spesso deplorato dentro di me, e qualche volta anche con altri, che non si realizzasse nei fatti quello che l’autore stesso premette al primo libro dell’Etica, e cioè che questa parte della filosofia va imparata non per saperne di più, ma per diventare buoni. Vedo, certo, che egli definisce assai bene che cosa sia la virtù, e che la suddivide e la discute con acutezza, così come fa per tutti gli elementi che appartengono da una parte al vizio e dall’altra alla virtù. E quando ho imparato tutto questo, so qualcosa di più di quello che sapevo già: ma il mio animo è rimasto tale e quale a quello di prima, e iden­tica è rimasta la volontà, e infine identico sono rimasto io stesso. Una cosa, infatti, è sapere, e un’altra è amare; una cosa l’intendere e un’altra il volere. Aristotele spiega che cosa sia la virtù: non lo nego. Ma la lettura dei suoi libri non offre (o ne offre in misura assai ridotta) quegli stimoli, quelle parole di fuoco che infiammano e incalzano il cuore ad amare la virtù e ad odiare il vizio. Chi li cerca, li troverà negli autori nostri, in Cicerone e Seneca, soprattutto, e (qualcuno se ne meraviglierà) in Orazio, poeta dallo stile difficile ma dai contenuti piacevolissimi. A che serve sapere che cos’è la virtù, se una volta conosciuta non la si ama?[5]

È difficile sottovalutare la portata davvero rivoluzionaria di questa messa in discussione del principio d’autorità che implica un giro copernicano nella concezione del sapere, attaccando direttamente le fondamenta stesse del “sistema di potere” scolastico: Parigi e la sua università (il “vico degli Strami”, rou de Fouarre, dove era situata la facoltà di artes), l’arroganza dei nominalisti inglesi, immersi in dispute senza senso, il cui prestigio Petrarca intacca mirando direttamente alla fonte del loro sapere, quell’Aristotele cui contrappone il sapere etico e retorico dei classici latini, il creazionismo di Platone, la stessa saggezza dei Padri, corifei di una sapientia che è anche pietas, cioè coinvolgimento emotivo, impegno politico, amore di sé e degli altri, ansia di rinnovare il mondo. Sono i temi della polemica innovatrice del primo umanesimo, che porterà la sua battaglia, culturale ma anche politica, negli ambienti favorevoli della Firenze, la Roma e la Venezia del primo Quattrocento. Con Petrarca già vengono impostati tutti i termini della nuova cultura, che i contemporanei chiamarono studia humanitatis e la posterità umanesimo. Le due “anime” petrarchesche – il philologus e il philosophus – conviveranno nel movimento umanistico e, nelle espressioni più felici, sapranno fondersi in un tutto armonico e incisivo. Di qui che le successive parti di questo libro si riferiscano alla lunga fase di fondazione dell’umanesimo come a una “eredità petrarchesca”»
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[1] De sui ipsius et multorum ignorantia, par. 135, a cura di E. Fenzi, Milano, Mursia, 1999, p. 263.
[2] E. Fenzi, Introduzione a F. P., De ignorantia, ed. cit., pp. 5, 8.
[3] De ignorantia, parr. 24-25, p. 191 (trad. del curatore).
[4] P. O. Kristeller, Petrach’s “Averroists”: A Note on the History of Aristotelianism in Venice, Padua and Bologna, «Bibliotèque d’Humanisme et Renaissance», XIV (1952), pp. 59-65 (cit. a p. 60).
[5] De ignorantia, parr. 143-45, p. 267.

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