04/11/15

Il trionfo di Alfonso

 "Chissà se quel giorno c’era il sole. Lo scintillio dei colori delle vesti, del carro, del baldacchino, dei finimenti e delle gualdrappe dei cavalli occupa tutto il nostro orizzonte visuale. Sovrasta finanche la luce del sole, se pure c’era. Le fonti, a questo proposito, sono renitenti.A quanto pare, il corteo si mosse dalla zona della porta del Carmine che era già pomeriggio. Il percorso, poi, si snodò lungo le principali strade della città e fece tappa presso i luoghi dell’amministrazione del potere cittadino, i cinque seggi nobiliari di Porta Nuova, Porto, Nido, Montagna e Capuana: quindi è possibile che, quando giunse a destinazione, nel Castel Capuano, si fosse già fatto buio completo.A essere organizzato in quella occasione fu il primo dei trionfi all’antica, che avrebbero caratterizzato le strategie di celebrazione del potere rinascimentale.
La folla sicuramente si accalcava lungo tutto il percorso del sontuosissimo corteo, urlava e acclamava, rideva e cantava. Lungo le strade di Napoli – senza dubbio era già la capitale del Regno dell’Italia meridionale peninsulare, la sede formale del potere sovrano3 – sarebbe passato il nuovo re, vestito con un manto scarlatto, foderato di zibellini: colori e materiali erano quelli imperiali4. Il carro su cui era portato era dorato  coperto di un baldacchino anch’esso dorato: lo trainavano cavalli bianchi. Era preceduto da araldi a cavallo vestiti con abiti dai colori sgargianti, che annunciavano il passaggio del corteo con sonori squilli di trombe. Ed era seguito da tutti i più potenti signori del Regno, mentre altri sorreggevano il pallio che copriva il carro. Il re era seduto sul trono, in alto, perché potesse essere visibile a tutti, e con sé recava tutte le insegne e i simboli della benevolenza divina, che lo aveva voluto finalmente vincitore di una lunghissima e sanguinosissima guerra: epifania sublime della maestà che si fondeva con l’ostentazione della ricchezza in una dimostrazione di potenza, allo stesso tempo, corporea ed eterea. Lungo il percorso, i sudditi avevano predisposto rappresentazioni sceniche. La comunità dei Catalani – come si vedrà – aveva organizzato soprattutto finti scontri tra cristiani e saraceni. Quella dei mercanti fiorentini, invece, aveva preparato alcuni quadri viventi con la raffigurazione delle virtù teologali e cardinali, guidate dalla Fortuna: spettacolarizzazione icastica di uno speculum principis che sarebbe stato chiarito indubitabilmente a voce dalla effigie personificata di Giulio Cesare, che tenne un’orazione poetica in volgare, un sonetto caudato i cui primi versi sono stati riportati all’inizio di questo paragrafo. Quello che all’epoca era considerato il primo degli imperatori romani si rivolgeva ad Alfonso chiamandolo “Cesare novello” e additandogli un trono imperiale, ancora vuoto: per essere degno di sedercisi sopra, avrebbe dovuto mostrare il possesso di tutte le virtù, e avrebbe dovuto seguire il suo esempio. Anzi, avrebbe dovuto persino superare il suo modello, perché il Cesare antico aveva confidato troppo sulla fortuna: quella fortuna che fin dall’antichità doveva accompagnare, nei discorsi elogiativi, ogni gesto e ogni impresa del sovrano, ma che gli auctores medievali rappresentavano come una ruota incontrollabile e feroce e sui cui modi per prevenirla e arginarla, si cominciava a riflettere".

(Fulvio Delle Donne, Alfonso il Magnanimo e l'invenzione dell'umanesimo monarchico, Roma, Isime, 2015, pp. 2-3) 


L'Arco di Alfonso

L'Arco di trionfo fatto costruire da Alfonso d'Aragona per celebrare la sua entrata trionfale in Napoli (1443) è il simbolo del nuovo potere aragonese. Un potere "nuovo" perché basato sui presuppposti già moderni di consenso e legittimità non solo e non tanto "di sangue" quanto "di virtù": il governo si giustifica attraverso il suo esercizio virtuoso e non per la mera discendenza. I maestri da cui i moderni traggono le linee guida dell'azione politica virtuosa sono i classici antichi rivisitati e aggiornati: questo è l'umanesimo.