13/01/16

Poliziano e la fine dell'umanesimo


**. Nel suo insieme, la fisionomia dell’umanesimo italiano appare ben differenziata tra una prima fase – la “lunga” prima metà del XV secolo, sino agli anni sessanta – e una fase successiva che si protrae sino alla fine del secolo – con il 1494, anno dell’invasione francese della penisola e inizio della fine delle condizioni sociali e politiche favorevoli allo sviluppo autonomo della cultura umanistica. La prima fase – la più lunga, tumultuosa e feconda di cambiamenti – culmina per l’appunto con le figure gigantesche di Lorenzo Valla e Leon Battista Alberti, i quali riassumono nella loro attività, ciascuno a suo modo, le acquisizioni più importanti della grande avventura culturale dell’umanesimo. Nell’ultimo terzo del secolo, si assiste invece a una progressiva specializzazione e “normalizzazione” del movimento umanistico, che si incammina verso il ripiego erudito e la squisitezza metodologica, ma abbandonando progressivamente l’impulso riformatore e totalizzante delle generazioni precedenti, che sopravvisse soltanto in qualche ridotto effimero o in personaggi isolati. Ma nel suo lungo “canto del cigno” l’umanesimo italiano ancora vide l’emergere di grandi figure della cultura e della letteratura.
Ermolao Barbaro muore nel 1493, Angelo Poliziano nel 1494. Vent’anni dopo, Romolo Amaseo informava suo padre che

a Roma la prima lectura, la qual ha per el presente el Pio [Giovanni Battista Pio], non excede ducati cento mal paghati, ed il medesimo intendo essere a Venetia. A Milano, Pavia, Ferrara tutte lecture d’humanità cessano, in tal modo che li valenti homini mendicano bassissimi partiti, come Iano Parrhasio il quale tien schola in Calabria, Iacomo di la Croce a Luca, et qui in Bologna lezemo cinque over sei per ducento ducati, li quali non varessemo tutti inseme un honorevol pedante.

Il padre di Romolo, è utile ricordarlo, era quel Gregorio che si diceva convinto di essere «de’ primi del mondo», giurava che neanche per mille ducati si sarebbe fatto «maistro de scola» e sperava di guadagnare come «famoso professor de humanità» più del «primo advocato che sia stato da nostro recordo in Friuli».
Che cos’era accaduto in quel volgere di secolo? Giovanni Pozzi ha tratteggiato magistralmente alcune delle cause di questa situazione: «scompaiono prima gli uomini migliori, quasi in un sol colpo e nel fiore dell’età, si disperdono poi i maestri più validi sotto l’incalzare delle guerre e lo sfasciarsi delle forze economiche». Ma se queste cause “esterne” sono senz’altro di peso, è vero anche che la crisi proveniva dall’interno stesso degli studia humanitatis, che perdevano lo spirito dell’avanguardia e la vocazione all’engagement sociale, e si avviavano sul cammino della normalizzazione, che prevedeva una ridefinizione sociale e culturale, con la nuova distribuzione dei ruoli e degli interessi fra “maistri di scola”, “professori di humanità” e di altre discipline, e con «un pubblico di gentiluomini colti, non professionisti della cultura»[1], vale a dire i figli dei potenti che possono esibire un impeccabile curriculum pedagogico umanistico, molto superiore a quello dei loro padri, ma non pretendono di competere sul terreno dell’erudizione con i loro precettori. La grande etica umanistica si avvia a trasfomarsi nell’etichetta cinquecentesca, e l’umanista si confonde col gentiluomo.
Insieme con il tramonto della philosophia Christi modellata sull’eloquentia, lo stesso Erasmo vide come gli studia humanitatis andassero progressivamente perdendo quella funzione di avanguardia che nel corso del Quattrocento avevano avuto nella battaglia della conoscenza («certemus, quaeso, honestissimum hoc pulcherrimmumque certamen»), consumando il tesoro di testi e di prospettive che aveva consentito loro, con poche geniali intuizioni, il rinnovamento del sapere e delle esperienze, e cessando di essere quella stella polare che avrebbe dovuto condurre alla nascita di un mondo migliore. In quanto filologia, non erano ormai che una disciplina tra le altre; nella scuola, da nucleo centrale che erano stati, passavano a semplice ornamento; accanendosi sulla letteratura e sull’arte, le trascinavano verso il baratro dell’accademismo. Non si può parlare di una sconfitta, dal momento che una tale situazione era stata determinata proprio dagli studia humanitatis: la grandezza dell’umanesimo consiste proprio nell’aver aperto talmente tante prospettive che a da un certo momento in poi ne risultò compromessa quella sua tendenza costitutiva all’egemonia, all’annessione, e fu giocoforza che altre forme di conoscenza si facessero strada in modo autonomo. Il che non toglie che anche le scienze vivificate da un secolo di recuperi umanistici – dalla botanica alla zoologia, dal diritto alla stessa filosofia – si abbeverassero ancora a lungo alle fonti dell’umanesimo. Ma la carica innovatrice e “di rottura”, l’aspirazione a costituirsi in criterio di orientamento e di azione, si era esaurita, e in Italia prima che altrove, proprio perché qui gli esiti erano stati particolarmente intensi e raffinati, e quasi repentina fu la stanchezza e il ripiego – fatte salve singole figure di eccezionale spessore intellettuale e morale, su tutti Giovanni Pontano.
È dunque comprensibile la soluzione di ripiegare nella fortezza della Altertumwissenschaft, i cui segnali già si scorgono nella proliferazione di commenti enciclopedici ai testi classici nell’ultimo terzo del secolo, come quelli di Calderini, Merula, Beroaldo e, naturalmente, Angelo Poliziano (1454-94), il principale e più raffinato esponente di questa tendenza[2]. Nelle vesti del grammaticus onnicomprensivo, sarebbe stato possibile salvaguardare quella dovizia di metodologie storiche e letterarie che già allora erano il contributo umanistico destinato a perdurare più a lungo nel tempo e a prezzo di minori cambiamenti. Ma la contropartita fu la torre d’avorio, la rivendicazione del ruolo distinto e separato del grammaticus: se Pontano ancora poteva inorgoglirsi di essere chiamato “filosofo”, Poliziano si dichiara invece apertamente «interprete di Aristotele [...] non filosofo»[3]. E se i Miscellanea evidenziano un’ansia “crepuscolare” di catalogazione ed esegesi totalizzante dell’antichità con gli strumenti di una sofisticata filologia sorretta da un’incipiente tecnica critico-testuale di carattere già scientifico[4], le prolusioni in versi ai corsi accademici, le celebri Silvae, sono funzionali – indipendentemente dai risultati estetici e dall’innegabile perizia formale – alla missione pedagogica del professore che si compiace e addita a modello la propria straordinaria erudizione, palese nella massa asfissiante di riferimenti peregrini, nella severità e finanche la pedanteria dei dati, estenuante nella ricerca ossessiva del dato minore, dell’allusione criptica, di cui sono un esempio i lunghi cataloghi di poeti nei Nutricia, in un tentativo, tutto letterario, de emulazione creativa estrema[5].
La filologia, ridotta a critica del testo ed esegesi minuta, nulla ha più da chiedere alla letteratura che non sia letteratura. Così, giungerà sino a noi. Ma avrà rinunciato al sogno, forse all’utopia, di creare un mondo diverso e migliore. 

** Materiali parzialmente provenienti dal saggio Umanesimo: Italia ed Europa, in collaborazione con F. Rico, Torino, Utet, in corso di stampa.


[1] C. Dionisotti, prologo a Aldo Manuzio editore. Dediche, prefazioni, note ai testi, a cura di G. Orlandi, Milano, Il Polifilo, 1975, vol. I, p. xli; ora in Aldo Manuzio umanista e editore, ivi, 1995, p. 127.
[2] Dopo l’articolo pionieristico di C. Dionisotti, Calderini, Poliziano e altri, «Italia Medioevale e Umanistica» XI (1968), pp. 151-85, parte del cammino è stato percorso nello studio del commentario umanistico: basti citare in questa sede l’esemplare studio di M. Campanelli, Polemiche e filologia ai primordi della stampa. Le Observationes di Domizio Calderini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2001.
[3] Cit. in V. Branca, Poliziano e l’umanesimo della parola, Torino, Einaudi, 1983, p. 14.
[4] Si veda ivi, il capitolo su Il nuovo metodo filologico e la Centuria secunda, pp. 156-81.
[5] Sulla Silvae, un quadro d’insieme, che ne mette in luce la straordinaria tecnica “a mosaico” e le ragioni gnoseologiche profonde, si può leggere nell’Introduzione di F. Bausi alla sua edizione di A. Poliziano, Silvae, Firenze, Olschki, 1996, pp. xi-xxxi.